Km zero, puro protezionismo?

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Per i detrattori manca la coerenza I prodotti a km zero non hanno solo dei fan ma anche dei detrattori, che adducono diverse motivazioni per sgonfiare il fenomeno. Globalizzazione, import ed export di alimenti e materie prime, concentrazione di grandi produttori a discapito dei piccoli, l’aumento di grandi punti vendita centralizzati e la diminuzione del numero dei piccoli negozi sono concetti acquisiti. È indubbio che questi cambiamenti abbiano un impatto ambientale: sulle emissioni di CO2 e sul consumo energetico e di acqua. Ma davvero i chilometri percorsi sono un indicatore dell’impatto ambientale?

Il DEFRA, il ministero britannico dell’Ambiente e dell’Agricoltura, ha commissionato uno studio dal titolo “The validity of food miles as an indicator of sustainable development” per verificare l’utilità del food mile, ovvero della strada percorsa dagli alimenti, come indice di sostenibilità ambientale. La conclusione è che lo spazio percorso non è una misura attendibile dell’impatto ambientale di un alimento, per molteplici motivi. Per la maggior parte degli alimenti, quasi la metà della strada percorsa, per la precisione il 48%, è attribuibile al compratore.

Quindi sarebbe preferibile acquistare i prodotti in un supermercato, dove si trova tutto, che fare più viaggi nei diversi punti vendita. È risultato anche che la grande distribuzione è più efficiente nel trasporto delle merci rispetto a un sistema distributivo non centralizzato, così come i grandi caseifici sono più efficienti dal punto di vista energetico di quelli piccoli, e questo si riflette sul prodotto finale. Insomma, il calcolo completo, dal campo alla tavola, è più complicato e deve prendere in esame non solo la strada percorsa ma anche tutto il sistema produttivo.

[box bg=”#cccccc” color=”#000000′ title=’Perplessità che nascono da valutazioni pratiche’]
Carlo Fiori, Luigi Guffanti 1876

Se per fenomeno km zero si intende la superiorità, rispetto ad altre scelte, del privilegiare consumi del proprio territorio, devo dire che, al riguardo, sono sempre stato e resto molto perplesso. E la mia perplessità nasce da valutazioni pratiche e molto semplici, anche limitandosi a parlare solo di formaggi. Dunque: km zero vorrebbe dire che io, ad Arona, Italia, Piemonte, provincia di Novara, per il mio consumo caseario utilizzerò solo Gorgonzola Dop e qualche Toma sia pur pregiata. Ma attenzione, per esempio per consumare Bettelmatt devo già cambiare provincia e spostarmi – o far spostare qualcuno – di almeno 70 km contro i 30 che devo calcolare come di raggio di azione minimo. Mi pare davvero un paradosso che contraddice l’incomprimibilità che uomini e merci debbono avere se vogliamo immaginare un minimo di progresso.

Quello sano, che porta a crescere culturalmente e socialmente. Qualcuno, per esempio, ha mai riflettuto che senza le caravelle di Cristoforo Colombo di ritorno dalle Americhe, non ci sarebbero stati ad esempio i pomodori, elementi, e non da poco, di quella che adesso chiamiamo dieta mediterranea?Spingendosi sempre più nel paradosso, a km zero, dovrei condire la pasta senza sale, senza olio, senza Parmigiano Reggiano o Pecorino. Fuori da paradossi, dunque, molto buon senso e, soprattutto, niente barriere burocratiche o, peggio, ideologiche, anche se sono d’accordo che le fragole a gennaio è meglio lasciarle perdere, ma questa è tutta un’altra storia che nulla ha a che vedere con il concetto di km zero.

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È inoltre difficile conciliare la promozione dei formaggi a km zero e dei DOP o di altri prodotti alimentari made in Italy in contemporanea, dividendo la questione a comparti. Ha senso esaltare i formaggi a km zero e denigrare le mozzarelle estere, per poi promuovere le esportazioni dei nostri grandi big Dop nel resto d’Europa, negli Stati Uniti, in sud America o in Asia? I detrattori parlano di protezionismo senza coerenza. Infine, ma non meno importante, perché rinunciare ad assaporare le centinaia di formaggi diversi prodotti nel nostro Paese? Tanto per fare degli esempi, perché un lombardo non dovrebbe deliziarsi con un Pecorino Romano o una Mozzarella di bufala campana e un laziale dovrebbe rinunciare al Parmigiano Reggiano? Vogliamo veramente lasciare che il resto del mondo non apprezzi le nostre prelibatezze casearie?

[box bg=”#cccccc” color=”#000000′ title=’Ok al km zero senza penalizzare il sistema di distribuzione di massa’]

Stefano Fontana, direttore del Consorzio di tutela del formaggio Gorgonzola

I prodotti a km zero sono nati con molti scopi, uno dei quali di ridurre l’impatto ambientale che il trasporto di un prodotto comporta, soprattutto per l’emissione di anidride carbonica con il conseguente incremento dell’inquinamento ambientale. E secondo questa filosofia è meglio consumare prodotti locali a tutto vantaggio dell’ambiente, promuovere l’agroalimentare e abbattere i costi e facendo riscoprire al consumatore la tradizione territoriale. Tutto questo porta anche a un’opposizione alla standardizzazione con le inevitabili conseguenze legate a ciò. Ne consegue che ok al sistema dei prodotti a km zero, ma non bisogna certo arrivare a penalizzare il sistema della distribuzione di massa, attraverso i punti vendita tradizionali o le grandi catene distributrici per non compromettere gli equilibri della produzione tradizionale sempre a beneficio del consumatore.

[/box] [box bg=”#cccccc” color=”#000000′ title=’Meno ma meglio’]

staff del portale prodotti-a-km-zero.it

I vantaggi per il settore caseario sono gli stessi dei prodotti agricoli venduti a km zero: la vendita diretta favorisce un rapporto produttore-consumatore basato sulla fiducia, mostrando apertamente i metodi produttivi e raccontando la propria filosofia. Non meno importante è la possibilità di mantenere i prezzi più bassi, ma con margini di guadagno più alti rispetto all’affidarsi alla grande distribuzione. Questo incide anche su una maggiore qualità dei prodotti offerti. Vantaggi non solo per i produttori ma anche per i consumatori e l’ambiente: il formaggio costa meno ed è sostenibile. La merce per arrivare al consumatore non deve essere trasportata, imballata e posta su uno scaffale, questi sono passaggi che fanno aumentare il prezzo e il consumo di CO2, materie per il confezionamento, acqua ed energia.

I formaggi a km zero non si scontrano con il bisogno di esportare alcune delle nostre eccellenze casearie all’estero. Sono due filosofie completamente differenti. Scegliere prodotti a km zero equivale a un maggiore rispetto dell’ambiente e della stagionalità dei prodotti. Inoltre, per far sì che continuino ad esistere le eccellenze dei prodotti tipici italiani, è importante anche che ci sia un supporto del territorio in cui nascono. Ecco che la vendita diretta si presta molto bene a incentivare e sostenere i prodotti tipici e, con essi, il recupero delle tradizioni alimentari.

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