(S)consigli per gli acquisti

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Quello del latte alimentare è un mercato in sofferenza da anni, con consumi in calo soprattutto per il latte pastorizzato. Solo in parte compensati dalle maggiori vendite di certe tipologie di latte capaci di meglio intercettare e soddisfare esigenze come sostenibilità, salutismo e valore nutrizionale. Attributi qualitativi che oggi orientano le scelte di acquisto del consumatore.

Ma con quali strumenti conoscitivi? Nel caso del latte pastorizzato la varietà dei prodotti offerti è ampia, con la necessità per il consumatore di dare concretezza e valore economico ad attributi merceologici come fresco, (alto) pastorizzato, alta qualità, microfiltrato, delattosato, fieno, montagna ecc… Spesso contemporaneamente presenti nella denominazione di vendita del prodotto. Non è un caso quindi che le scelte di acquisto possano essere in qualche modo orientate, oltre che dal prezzo, anche da giudizi e recensioni rintracciabili sui vari media.

Informazioni ricavabili anche da test comparativi. È il caso di una recente indagine condotta su 25 campioni di latte pastorizzato, fresco e microfiltrato. Di origine italiana e la cui qualità è stata valutata anche sulla base del livello di attività residua dell’enzima lattoperossidasi. Un parametro chimico riferibile al cosiddetto “danno termico” indotto dal processo di pastorizzazione. Parametro probabilmente poco intellegibile (e interpretabile) da un consumatore medio.

Ma anche analiticamente opinabile. Infatti, per il latte pastorizzato in Italia esiste un quadro normativo, peraltro senza uguali in Europa, comprendente altri parametri analitici in grado di definirne più compiutamente e legalmente la qualità sulla base dello stress termico subito. Da questo punto di vista, esprimere un giudizio qualitativo sulla base del livello di inattivazione della lattoperossidasi ha poco senso se si confrontano latte pastorizzato fresco e latte pastorizzato ad elevata temperatura. Quest’ultimo, per legge è “perossidasi negativo”, quindi non presenta attività residua rilevabile di questo enzima. Peraltro, il trascurabile maggior danno termico indotto nel latte alto pastorizzato è la migliore opzione tecnologica con cui soddisfare l’attuale richiesta di maggior durabilità del prodotto, in un’ottica di minor spreco e migliore sostenibilità. Similmente, il confronto tra latti pastorizzati freschi (di alta qualità o meno) e altre tipologie di latte pastorizzato viene legalmente e qualitativamente valutato soprattutto attraverso la determinazione dei livelli di sieroproteine solubili e furosina.

Infine, abbinare il danno termico alla qualità nutrizionale del latte pastorizzato appare ugualmente opinabile. Soprattutto se viene dedotta, come nel test, dalla quantità totale degli aminoacidi essenziali presenti nel latte. Senza specificare che le differenze evidenziate sono soprattutto riconducibili al diverso tenore proteico dei latti analizzati. E non “al tipo di alimentazione e quindi possiamo dire al benessere animale”.

In sostanza, anche l’informazione più qualificata a volte fa classifiche di merito, ma non aiuta a fare chiarezza. Con test qualitativi che non portano a un arricchimento culturale per le scelte di acquisto del consumatore. E, più che consapevolizzarlo, lo condizionano.