Lo scorso anno, in Texas, è stata segnalata per la prima volta la presenza del virus dell’influenza aviaria H5N1 nelle vacche da latte. Più recentemente, in Nevada, è stato registrato un nuovo caso, questa volta con il virus in una forma mutata, già diffusa tra il pollame. Non bastasse, a questi episodi si aggiunge il recente e primo caso di aviaria registrato in Europa nelle pecore, il cui latte è risultato contaminato dal virus. Salti di specie che dimostrano la capacità del virus H5N1 di adattarsi e, purtroppo, di diffondersi anche tra animali da latte.
A oggi le vie di diffusione del virus negli allevamenti americani non sono ancora del tutto chiare. Anche per questo, la preoccupazione per la sicurezza di latte crudo e derivati aumenta. Il ceppo mutato del virus è stato addirittura scoperto analizzando il latte crudo. Un virus che, peraltro, sembra poter persistere per settimane nel latte crudo refrigerato.
La Food and Drug Administration ha attuato anche un programma di monitoraggio dei formaggi a latte crudo per la presenza del virus. (Ri)proponendo come criterio cautelativo di sicurezza un tempo minimo di stagionatura di almeno 60 giorni. Questo approccio precauzionale ha una lunga storia, ed è stato stabilito per prevenire potenziali rischi da zoonosi conseguenti al consumo di prodotti da latte crudo. Con norme che risalgono a diversi decenni fa negli Stati Uniti e a fine secolo scorso in Unione Europea.
La scelta dei 60 giorni è, come noto, il risultato di studi mirati a individuare un periodo di stagionatura del formaggio necessario affinché potenziali patogeni presenti vengano inattivati o ridotti a livelli di sicurezza per il consumo umano. Dopo questo lasso di tempo, tuttavia, è stata di recente evidenziata la persistenza del virus H5N1 in formaggi a latte crudo, sempre negli Stati Uniti. Uno dei fattori vitali per la sopravvivenza del virus sembrerebbe il valore di pH del formaggio. Visto che l’acidità determinerebbe cambiamenti conformazionali del virus tali da impedire il suo legame con i recettori delle cellule dell’ospite eventualmente infettato.
Più in generale, queste evidenze sperimentali dimostrano che per l’eterogeneità dei processi di caseificazione e delle caratteristiche microbiologiche e chimico-fisiche riscontrabili nei diversi prodotti caseari, due mesi di stagionatura non risultano sempre sufficienti per inattivare a livelli di sicurezza virus e batteri potenzialmente patogeni. Ragione per cui questo periodo può essere considerato un criterio di prudenza, ma non di sicurezza assoluta per qualsiasi formaggio a latte crudo. Almeno nel caso del virus H5N1. Per il quale sono necessari ulteriori ricerche per valutarne la sopravvivenza nei diversi prodotti a latte crudo per individuare efficaci misure di mitigazione del rischio lungo l’intera filiera.