Recentemente, il ministero della Salute ha pubblicato le Linee guida per il controllo di E. coli STEC nel latte non pastorizzato e derivati. Le linee rimandano a principi di prevenzione del rischio microbiologico che dovrebbero essere noti a chi opera in questa filiera. Purtroppo, per una minoranza non è (stato) così, come dimostrato da alcuni gravi quadri clinici causati dal consumo di formaggi a latte crudo contaminati da STEC. A male estremo… draconianamente le linee propongono di analizzare tutte le cagliate destinate alla produzione di formaggi a latte crudo.
Una prima replica ai contenuti delle linee è arrivata da Slow Food con una lettera indirizzata ad alcuni ministri. Condivisibile sul fatto che la trasformazione casearia del latte crudo valorizza particolari contesti geografici, specie montani. Più discutibile per altri aspetti. Ad esempio, affermare che “si sta costruendo un’impalcatura di controlli costosissimi su percentuali di rischio bassissime” è un messaggio sbagliato. Quasi che la maggior incidenza di altre zoonosi (per es. listeriosi) causate da formaggi sia cosa rassicurante. Al contrario, genera un falso senso di sicurezza che riduce il livello di attenzione di chi produce e/o trasforma il latte crudo. Secondo Slow Food “più importante puntare sulla formazione”. Ovvio. Ma allora perché sostenere che “perso un bravo casaro, non c’è corso scolastico che possa rimediare”? Forse a dire che ciò che serve è solo la tecnica casearia “tramandata”? Per mia esperienza ha generato più danni che vantaggi, soprattutto in montagna.
Nella lettera si parla di linee guida che penalizzano “migliaia di produttori” di formaggi da latte crudo, senza considerare che molti di questi prodotti si ottengono con lavorazioni capaci di inattivare o arrestare gli STEC. Mentre il problema oggi riguarda soprattutto i formaggi a latte crudo e pasta cruda freschi, non stagionati. Per questi prodotti, come indicato nelle linee guida, è utile l’impiego di colture starter in caseificazione per sfavorire la sopravvivenza degli STEC. Eppure, l’utilizzo di innesti (anche autoctoni) è percepito con un vulnus qualitativo per i formaggi a latte crudo. Una posizione (a mia memoria) da sempre condivisa da Slow Food.
Discutibile, infine, sostenere che la campagna di comunicazione sul problema STEC porti “a non caricare più le malghe, addirittura a chiudere”. Se ciò accade, non è da adesso, e per tanti altri motivi. In ogni caso la sopravvivenza e la sostenibilità economica di alpeggi e malghe non possono prescindere dalla sicurezza alimentare.
“Un’informazione equilibrata” che non generi “allarmismi inutili e dannosi” deve spiegare bene le cose. Senza semplificarle su un piano socioculturale o, anche se non esplicitamente, quasi svilendo il ruolo che alcuni accorgimenti tecnologici (compresa la pastorizzazione) hanno avuto nel garantire formaggi sicuri e di qualità. La sicurezza e la caseificazione del latte crudo non sono in contrapposizione. Richiedono conoscenza e competenza. Lo stesso vale per comunicare correttamente il rischio STEC. Che, purtroppo, esiste.