Bio(il)logico

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di Ivano De Noni

Un settore in continua ascesa, anche di consensi tra i consumatori, con tassi di crescita in Europa del 10-15% annuo. Sto parlando del biologico una realtà sempre più presente e importante nel comparto agroalimentare del nostro Paese, anche se attualmente in grado di determinare solo qualche punto percentuale del PIL agroalimentare totale. Una crescita testimoniata da numeri che collocano l’Italia fra i primi Paesi al mondo per superficie coltivata a biologico, anche rispetto al totale della aree agricole e, soprattutto, per il più alto numero di produttori. Parallelamente, aumenta in Italia il numero di aziende trasformatici e la propensione di spesa del consumatore per i prodotti biologici in controtendenza rispetto alla contrazione dei consumi indotta dalla crisi economica. Una tendenza che coinvolge anche il settore lattiero-caseario con latte alimentare fresco e yogurt tra i prodotti bio più acquistati. D’altra parte, il valore aggiunto del prodotto biologico è oggi spesso superiore a quello ricavabile dall’ottenimento di altri marchi di qualità, DOP compresa. Aggiungiamo sistemi di controllo ad hoc, tutto parrebbe giocare a favore di questo sistema di produzione finalizzato a “stabilire un sistema di gestione sostenibile per l’agricoltura …che rispetti i sistemi e i cicli naturali e mantenga e migliori la salute dei suoli, delle acque, delle piante e degli animali e l’equilibrio tra di essi” (art. 3 del reg. n. 834/2007). Illogico dubitare del biologico? Un recente lavoro (“Does organic farming reduce environmental impacts? A meta-analysis of European research”, Journal of Environmental Management, 2012) di alcuni ricercatori dell’Università di Oxford pone invece alcuni interessanti quesiti sull’effettiva sostenibilità ambientale di alcune filiere agroalimentari biologiche, considerando parametri come perdite di azoto o di fosforo, emissioni di N2O, NH3 e gas serra, consumo del suolo e di energia, potenziale di eutrofizzazione dell’ambiente ecc. I risultati relativi alla filiera latte sono in parte sorprendenti nel senso che non evidenziano differenze importanti tra produzione di latte biologico e di latte convenzionale per emissione di gas e eutrofizzazione. A fronte di un minor utilizzo di fonti energetiche, il metodo di produzione del latte biologico comporta una riduzione delle rese con conseguente aumento sia della superficie necessaria per unità di prodotto che dell’impatto ambientale. In altre parole, solo disponendo di una superficie agricola inimmaginabile, il sistema di produzione bio potrebbe soddisfare l’attuale richiesta di latte (come di altri prodotti lattieri). Il dubbio è che il settore lattiero bio non possa che rimanere una nicchia di produzione, per quanto remunerativa e di immagine. Per adesso, queste discussioni non toccano le certezze di questo settore che, come il refrain del motivetto vincitore a Sanremo, in futuro… “Risolverà, magari poco o niente, ma ci sarà”.