Il business delle agromafie sale a 25,2 mld

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Sale a 25,2 miliardi il business delle agromafie che, nel giro di poco più di un decennio, ha praticamente raddoppiato il volume d’affari. In breve tempo ha infatti non solo recuperato il terreno perso con la pandemia ma ha anche esteso la sua azione a sempre nuovi àmbiti. Dal caporalato alla falsificazione e sofisticazione dei prodotti alimentari, dal controllo della logistica all’appropriazione di terreni agricoli e fondi pubblici, fino all’usura, al furto e al cybercrime.

È il quadro delineato dall’8° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia elaborato da Eurispes, Coldiretti e Fondazione Osservatorio agromafie.

Il settore agroalimentare è diventato sempre più attrattivo per le organizzazioni criminali che, secondo quanto illustrato nel Rapporto, aumentano sempre più i tentativi di estendere i propri tentacoli su molteplici asset legati al cibo. Un esempio è lo sfruttamento degli immigrati attraverso il caporalato, gestito da reti criminali italiane e straniere. Ma le agromafie usano le pieghe della burocrazia per promuovere il credito illegale, acquisire aziende agricole e riciclare denaro. Inoltre, gli imprenditori subiscono minacce e danni per cedere terre e attività, anche a causa della crisi legata alle tensioni internazionali e all’aumento dei costi di produzione che ha caratterizzato questi ultimi anni, indebolendo molte imprese.

L’obiettivo principale sono i fondi pubblici e il controllo di mercati e appalti, con l’aiuto di professionisti compiacenti e documenti falsi. Ma le infiltrazioni si estendono a ristorazione, mercati ortofrutticoli e grande distribuzione, e ancora alle frodi alimentari, con prodotti adulterati o senza etichetta, spesso venduti nei discount. I settori più colpiti sono vino, olio, mangimi e riso, usando agrofarmaci vietati e false certificazioni bio da importazioni dell’Est Europa. Un capitolo a parte è poi rappresentato dal dilagare dell’Italian sounding e delle frodi sul packaging.

Il caporalato transnazionale e le imprese senza terra

Una novità rilevante dell’analisi del Rapporto è la nascita di organizzazioni transnazionali tra Italia e Paesi extraeuropei, che agiscono come agenzie informali di intermediazione illecita della manodopera agricola. Indagini recenti hanno rivelato come queste reti, sfruttando anche i decreti flussi, organizzino l’arrivo di lavoratori dal subcontinente indiano (soprattutto India e Bangladesh), in cambio di ingenti somme. Una volta in Italia, questi lavoratori vengono sfruttati, privi di tutele, e costretti a lavorare per saldare il debito contratto, magari destinati ad altri settori, mentre gli imprenditori agricoli si ritrovano senza manodopera.

Un meccanismo che si basa principalmente sul fenomeno delle “imprese senza terra”. Si tratta di realtà che assumono la forma giuridica di cooperative e che si propongono alle aziende agricole come fornitrici di addetti per le varie attività, soprattutto stagionali. Ai lavoratori viene imposta l’adesione formale alla cooperativa, ma questa non porta in realtà nessun vantaggio. Al contrario, le retribuzioni possono risultare fino al 40% inferiori rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali o provinciali, all’insaputa delle stesse aziende agricole che pagano il servizio direttamente alla cooperativa.

Dall’Europa alla Cina, una rete globale delle agromafie

L’individuazione delle agromafie in Europa – denuncia il Rapporto ‒ risulta estremamente deficitaria. Oltre che in Italia, gruppi criminali organizzati che operano nel settore primario sarebbero stati individuati in Austria, Belgio, Germania, Slovacchia, Spagna e Paesi Bassi. Tuttavia, le loro attività non risultano monitorate e catalogate con sistematicità. Un discorso a parte merita il caso delle attività legate alle mafie cinesi, che starebbero aumentando l’interessamento per il settore agricolo, mediante l’acquisto di terreni e aziende di piccole dimensioni, e per la stessa logistica.

La piaga dell’Italian sounding e gli inganni del codice doganale

Un altro fenomeno insidioso è rappresentato dall’Italian Sounding, ovvero il commercio di prodotti che di italiano hanno il nome o segni distintivi sulla confezione ma che in realtà non hanno alcun legame produttivo con il nostro Paese. Il caso più evidente è quello dell’agropirateria internazionale, di cui il Parmesan, clone di Parmigiano Reggiano e Grana Padano, o le varie imitazioni del Prosecco (l’ultimo, il Calsecco californiano) rappresentano i simboli più noti. Un mercato che ha raggiunto il valore record di circa 120 miliardi di euro, pari a quasi il doppio di quello dell’export agroalimentare totale.

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