Se ne è parlato nel corso del convegno “Il made in Italy? Non esiste. La catena internazionale dei fattori produttivi nella creazione del valore, al tempo di Donald Trump”, organizzato da Brazzale a Tuttofood.
Un confronto provocatorio fra economisti, studiosi e operatori del settore ha cercato di abbandonare ideologismi e derive ipocrite per rispondere con schiettezza a domande quali: ha ancora senso parlare di made in Italy? E cosa significa, davvero, “made in”? Quale ruolo hanno la catena del valore, i movimenti internazionali delle materie prime e quelli delle tecnologie? E cosa definisce un’azienda o un prodotto italiano?
Dal “made in”…
La definizione comune di “made in Italy” quale “prodotto realizzato con input italiani” è fuorviante, essendo ogni prodotto realizzato sul suolo italiano il risultato di una complessa catena di input provenienti da tutto il mondo. Alcuni esempi: un trattore John Deere comprato e usato nei campi, in Italia, produce valore in Usa; un fertilizzante Basf lo produce in Germania; il gasolio usato per la raccolta delle materie prime agricole e la trasformazione genera ricchezza in Arabia Saudita. Ogni prodotto, soprattutto alimentare, è il risultato di migliaia di input eterogenei cui si sommano ancora, durante la commercializzazione, tutti i passaggi, nazionali e internazionali, della distribuzione dei prodotti agroalimentari.
Il significato che si attribuisce a “made in Italy” oggi non solo disconosce il fenomeno della cooperazione internazionale inconsapevole ma altresì frena l’enorme potenziale di trasformazione dell’industria alimentare italiana costretta all’uso delle materie prime nazionali il cui potenziale di crescita è già esaurito per limiti fisici, nel rispetto dell’ultima trasformazione sostanziale (art. 24 del regolamento (CEE) n. 2913/92).
Nel corso dei lavori è stato proposto di sostituire il concetto di made in Italy con quello di “prodotto italiano”, cioè “prodotto la cui realizzazione coinvolge in misura significativa le risorse umane, il territorio e la cultura italiana, ed in relazione al quale la creazione di valore aggiunto economico sia in modo significativo attribuibile e di pertinenza di cittadini italiani e dell’Italia”. Ciò consentirebbe all’industria casearia italiana di impiegare il proprio talento di trasformatori per far crescere il fatturato, il valore aggiunto per la nostra e altrui popolazione e il nostro e altrui territorio, in Italia e all’estero.
Anche il comparto allevatoriale trarrebbe giovamento dal concetto di prodotto italiano sia direttamente (incremento della concorrenza tra acquirenti di materia prima italiana) sia indirettamente (rafforzamento della competitività dell’industria di trasformazione italiana e stimolazione dell’efficienza del prodotto italiano).