Pagamento del latte in base alla qualità

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Glorioso passato, incerto presente e futuro di opportunità.

di G. Bolzoni, Centro di Referenza Nazionale Qualità Latte Bovino – IZSLER Brescia

Il passato

Pagare di più un prodotto di maggior qualità e meno quello di scarsa qualità sembra essere una ovvietà tanto evidente da non richiedere alcuna considerazione aggiuntiva. Nel settore della compravendita del latte, per mettere in pratica su ampia scala questa “ovvietà” ci sono voluti però molti anni di impegno, perseveranza e volontà da parte di alcune persone “illuminate” che nel nostro Paese, a cominciare dalle regioni a maggior produzione di latte della pianura padana, sono riusciti nel corso degli anni ’80 nell’impresa.

In applicazione della Legge n. 88 del 1988, quella che fino ad allora era stata un’esperienza esclusiva di alcune realtà locali (Centrale del Latte di Milano, Consorzio Parmigiano Reggiano, Cooperative Bresciane per esempio) si concretizzò nel “sistema di pagamento del latte a qualità su base regionale” (PLQ). Contestualmente alla definizione degli accordi annuali sul prezzo del latte dai rappresentanti dei produttori e dell’industria di trasformazione venivano fissati i parametri analitici, i limiti, le regole e gli strumenti per la realizzazione di questo sistema. Nel corso dei primi anni di collaudo e sviluppo gli obiettivi apparivano semplici e lineari: ridistribuire una parte dei soldi della compravendita del latte in funzione della sua qualità.

Gli obbiettivi erano, da una parte, stimolare gli allevatori a migliorare il proprio prodotto e, dall’altra, permettere alle aziende di trasformazione di migliorare le rese produttive e la qualità dei prodotti trasformati, anche riducendo scarti e perdite. Erano anni in cui si iniziava soltanto a parlare di quote latte (che a livello comunitario risalgono fin al 1982), di controllo di filiera e di tutela del consumatore. Grazie a questo strumento il settore latte, a differenza di tutti gli altri settori di produzione agro-alimentare, si presentava decisamente organizzato ed efficiente almeno a livello regionale. Molti anni sono passati e, come ovvio, molte cose sono cambiate: alcune hanno mostrato limiti e malfunzionamenti mentre altre ancora sono diventate “antiquariato” senza valore.

Un elenco degli aspetti critici del PLQ nel corso di oltre vent’anni risulterebbe sicuramente troppo lungo e probabilmente incompleto. Limitiamoci quindi soltanto ad alcuni esempi:

  • pur disponendo dei risultati di analisi, una parte degli acquirenti non ha poi di fatto applicato in modo sistematico premi e penalità monetarie;
  • la qualità di base definita negli anni ’80 è rimasta l’elemento di riferimento quasi esclusivo, mentre si è scarsamente sviluppata la qualità finalizzata al tipo di trasformazione cui il latte è destinato;
  • il prezzo del litro di latte è sempre stato il vero motivo del contendere tra la parti, mentre la “qualità” è stata progressivamente relegata ad accordi last-minute che, sostanzialmente, confermavano la situazione dell’anno precedente;
  • il sistema non è stato applicato in modo uniforme nelle diverse regioni italiane e, in alcuni casi, non ha trovato alcuna applicazione, così come per produzioni diverse dal latte bovino.

L’esistenza di limiti e difetti non è però sufficiente a oscurare i significativi risultati ottenuti dal PLQ nel suo complesso. Anche in questo caso, per evitare di estendere troppo l’elenco, limitiamoci ad alcuni aspetti rappresentativi. A partire dalla semplice constatazione che la qualità del latte prodotto, dal punto di vista sia igienico-sanitario sia compositivo, è significativamente migliore oggi rispetto a 25 anni fa. Uno dei parametri su cui si discusse di più negli anni ’80 fu il contenuto di proteine: qualcuno considerava utopico porre un limite di franchigia a 3,05 g/100ml sostenendo che, dopo anni di selezione per la quantità, si potesse ottenerlo soltanto allevando razze “esotiche” delle isole della Manica! Invece, la media annuale generale del titolo proteico del latte prodotto in Lombardia nel 2012 è stata di 3,46 con 2,702 di caseine.

La media annuale di carica batterica nel 2012 è stata di 39.000 UFC/ml rispetto al limite di commercializzazione di 100.000, questo stesso parametro superava i 600.000 nel 1988 (tabella 1 e figura 1). In secondo luogo, è evidente che i controlli quindicinali realizzati in (quasi) tutti gli allevamenti hanno fornito una formidabile base dati completa, aggiornata, diffusa e specifica per molteplici finalità anche non prettamente commerciali: applicazione della legge 169/89 sul latte alimentare, del DPR 54/97, fino ai programmi di autocontrollo richiesti dai regolamenti comunitari sulla sicurezza alimentare.

È noto del resto che il costo principale di qualunque programma di controllo su vasta scala è quello dell’esecuzione del prelievo e del trasporto e conservazione dei campioni. Grazie al PLQ, molte attività sono state realizzate sostanzialmente a “costo zero”: le Autorità Sanitarie di controllo hanno avuto a disposizione gli esiti dei controlli richiesti dalla normativa sanitaria (medie geometriche per CBT e cellule per esempio); il calcolo delle quote latte è stato realizzato utilizzando i valori di contenuto di grasso del latte; nel corso dell’emergenza Aflatossina M1 del 2003 la situazione regionale è stata monitorata con cadenza quindicinale grazie ai campioni del PLQ e così via. Una situazione come questa, in altri settori produttivi rappresentava un vero e proprio “miraggio”.

Il presente

Se restringiamo il campo all’ultimo decennio, il panorama complessivo appare però meno convincente. A fianco di alcuni passi avanti (come la determinazione delle caseine) si è progressivamente allentato l’interesse per il PLQ ed è apparsa una certa inerzia al suo adeguamento al mutare delle condizioni del mercato e della realtà produttiva. Le cause sono ovviamente varie ed alcune di esse sono anche esterne al settore lattiero- caseario: la globalizzazione internazionale dei mercati e l’unificazione di quello comunitario; il peso dei costi energetici e della crisi finanziaria; le problematiche ambientali e i cambiamenti legislativi, soprattutto a livello comunitario; non ultimi poi i mutamenti nel comportamento e nelle aspettative del consumatore sul mercato (prodotti tradizionali, biologici, esigenze salutistiche).

Più determinanti però sono stati alcuni fattori specifici del settore lattiero-caseario tra i quali per esempio:

  • la continua riduzione del numero di allevamenti attivi con progressiva intensificazione degli stessi (oggi è in attività circa il 50% delle stalle della fine degli anni ‘90 che, del resto, erano già circa la metà di quelle degli anni ‘80);
  • l’affermarsi di grandi gruppi multinazionali per la trasformazione e la distribuzione dei prodotti da una parte e quello delle cooperative di primi acquirenti dall’altra che hanno profondamente modificato il “rapporto contrattuale” della compravendita del latte;
  • l’oggettiva perdita di valore delle produzioni primarie agro-alimentari rispetto a quello dei servizi e dei prodotti non alimentari;
  • il livello qualitativo medio raggiunto dal prodotto regionale che insieme alla definizione di prerequisiti normativi hanno ridotto fortemente lo spazio di ulteriore miglioramento in assenza dell’introduzione di nuovi indicatori e obbiettivi.

In sintesi, il PLQ ha oggi un peso economico marginale rispetto al costo del litro di latte; in gergo si usa dire “la forbice è troppo stretta” che significa che la differenza di prezzo tra un latte ottimo e uno pessimo, ma comunque idoneo alla commercializzazione secondo la normativa vigente, è ormai molto limitata. Del resto i criteri attuali di definizione di premi e penalità sono sostanzialmente gli stessi definiti a inizio millennio in occasione del passaggio all’euro.

Anzi, in molte realtà, il PLQ è diventato unicamente uno strumento per realizzare i sistemi di autocontrollo e garantire il rispetto dei requisiti senza alcun effetto economico. Ciò comporta anche, in alcuni casi, un utilizzo “distorto” del sistema stesso: quando non ci sono effetti monetari i sistemi sono utilizzati con minor correttezza e trasparenza. Una delle cause della deriva che il sistema ha subito è, a nostro avviso, la mancanza di un organismo decisionale che insieme alla competenza tecnica possa valutare e decidere innovazioni e modifiche che aggiornino e rendano più attuale e rispondente alle esigenze delle parti il sistema nel suo insieme e che possa poi anche realizzare i controlli e le verifiche sul campo. Esistono, per esempio, tecniche analitiche innovative già disponibili, la cui applicazione richiede però decisioni condivise e valutazioni dei relativi costi.

Esistono possibilità di tenere sotto controllo attraverso registrazioni telematiche il luogo e l’ora del prelievo, i tempi e le temperature di conservazione dei campioni che consentirebbero anche la tracciabilità del prodotto che potrebbero essere autorizzati o addirittura resi obbligatori definendo ovviamente responsabilità di gestione e costi di applicazione. Malgrado questo anche recentemente il PLQ ha fornito un esempio di utilità ed efficacia che, in genere, è poco noto.

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