La selezione genetica è stata e rimane la leva più potente per migliorare la qualità del latte. Con tre quarti del latte italiano destinato a formaggio, non stupisce che questa leva sia stata perlopiù utilizzata per incrementare la qualità casearia del latte. Almeno fino a poco tempo fa, a giudicare dalla frenetica attenzione che produttori e trasformatori stanno rivolgendo alla “qualità genetica” della materia prima destinata a diventare latte alimentare. L’obiettivo è la selezione di bovine con determinati genotipi di β-caseina. Questo interesse muove da ragioni salutistiche riconducibili al potenziale rilascio di alcuni peptidi (β-casomorfine) durante la digestione del latte contenente la variante A1 di questa proteina. Peptidi ai quali è stato associato l’aggravamento o l’insorgenza di una varietà, esagerata a onor del vero, di patologie umane. Una relazione causa‐effetto non collegabile invece al consumo di latte contenente solo la variante genetica A2. L’assunto è tutt’altro che nuovo e mi coinvolge per due ragioni. La prima è che nel 2009 fui tra gli estensori del documento Efsa (Scientific Report 231) in cui si afferma la mancanza di un razionale per questa relazione causa‐effetto. La seconda perché, circa tre anni prima, insieme ad associazioni di allevatori incontrai John Ryall, l’allora International Business Manager della “The a2 milk Company”. L’azienda che, nata nel 2000, ha fatto del latte alimentare contenente la sola variante A2 un crescente affare in varie parti del mondo, Cina compresa. Venuto in Italia per presentare le potenzialità commerciali dell’idea “latte A2”, Ryall suscitò interesse nel sottoscritto, perplessità o indifferenza nel resto dei suoi interlocutori. Si dice che il saggio cambia spesso idea, ma è difficile comprendere perché il nostro settore latte è oggi così fortemente interessato alla stessa idea. A maggior ragione dopo il rapporto Efsa che esclude (fino a prova contraria) significativi vantaggi salutistici per questo tipo di latte.
Credo che le risposte siano sempre le stesse. L’atavica staticità della filiera in termini di innovazione di prodotto e processo. L’incapacità di guardare oltre (confine) unita all’inerzia nel cogliere il potenziale di innovazioni già esistenti, magari copiando per tempo quelle di successo. Un immobilismo che oggi sembra scosso solo dalla necessità di trovare rimedio a un drammatico calo di interesse per il latte a fronte di una crescente attenzione per i suoi “sostituti”.
Anche per il latte alimentare, la domanda di “innovazione” richiede risposte che anticipino i trend di mercato. Di sicuro, piuttosto che produrre bevande alternative vegetali è meglio cominciare da zero o, se preferite, dalla A… due.