Origine territoriale degli alimenti

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I sequestri

Compito di delicatezza estrema, quello di valutare “l’ingannevolezza” e che ancora più estrema diventa se si decide di procedere – nei confronti del presunto trasgressore – con l’adozione di provvedimenti immediatamente penalizzanti: dal sequestro del materiale di etichettatura a quello del prodotto alimentare già etichettato, fino a quello – caso limite e, a onor del vero, rimedio spropositato quasi sempre – del sequestro dell’intera azienda alimentare. È, per esempio, il caso, ancora sotto esame dell’Autorità giudiziaria, della richiesta (del Pubblico Ministero) di sequestro per caseifici che classificano – legittimamente però secondo noi – come “italiano” un formaggio per pizza di tipo “comune” fabbricato impiegando materia prima di provenienza CE. In realtà, in casi del genere, a “ingannarsi” sono stati – secondo noi – gli inquirenti che hanno fatto confusione tra il prodotto alimentare “finito”, innegabilmente “italiano” in base alle vigenti normative, e la materia prima di provenienza estera per esso adoperata. Ugualmente di estrema delicatezza è il tema dello sfruttamento pubblicitario della “territorialità” di DOP e IGP a favore di prodotti similari di tipo “comune”, ma provenienti da aziende del medesimo territorio della DOP o IGP. Sempre più di frequente, infatti, si verifica che in sede di etichetta o di materiale di imballaggio l’azienda, ubicata nel territorio di una DOP/IGP, cerchi di valorizzare il suo prodotto di tipo “comune”, evidenziando appunto la sua ubicazione territoriale. Un tale richiamo territoriale, sistematicamente contestato come “illecita evocazione” dagli organi di controllo, non è da reputarsi invece illegale solo in quanto tale, ovvero in sé e per sé. Infatti se la sua formulazione è realizzata in termini tali da rendere il prodotto “comune” ben distinto, anzi agevolmente – dal consumatore – distinguibile rispetto al prodotto DOP o IGP “evocato”, rientra allora quel richiamo nell’ambito della “lecita evocazione” ovvero del lecito richiamo al prestigio di un territorio derivante dal riconoscimento DOP o IGP conseguito da alcuni prodotti dello stesso territorio. Il successo di mercato di questi ultimi, formalizzatosi nel riconoscimento DOP o IGP, può legittimamente trasformarsi in prestigio anche per altre aziende alimentari dello stesso territorio. È in realtà interesse della collettività, territoriale e nazionale, che quei prodotti più prestigiosi facciano da locomotore sul mercato anche per gli altri di tipo “comune”. L’unica, decisiva condizione è che questa “evocazione” avvenga in forme di leale e trasparente informazione per il consumatore ovvero senza il vizio della “ingannevolezza”. Chi opta invece per l’opposta soluzione e valuta come “ingannevole” qualsiasi riferimento al territorio di cui una DOP/IGP, anche se si tratta di riferimento presente in etichetta persino per obbligo di legge (tale, per esempio, l’indicazione della sede dello stabilimento di produzione o un marchio registrato ben prima del riconoscimento della DOP/IGP), chi bolla come “illecita” evocazione un tale genere di riferimento, finisce per progettare una sorta di “monopolio” nell’uso di termini riferiti al “territorio” e a favore solo di aziende produttrici di DOP o IGP, gettando un’ombra (e forse qualcosa in più) di incostituzionalità sulle norme che avallerebbero tali conclusioni giuridiche, qualora però fosse corretta una tale loro interpretazione così esasperatamente restrittiva. Va poi aggiunto che si verifica – con preoccupante frequenza ormai – che situazioni del genere siano perseguite dagli organi di controllo anche in modo disomogeneo e disordinato: si passa infatti – per lo stesso prodotto e/o per lo stesso tipo di richiamo territoriale – dalla contestazione di un illecito amministrativo (come quello di cui all’art. 2 del decreto l.vo n. 297/2004) alla contestazione del delitto di cui all’art. 517 del Codice penale con l’aggravante di cui all’art. 517 bis. Si procede poi sempre più di frequente a sequestri o solo delle etichette e del materiale di imballaggio o anche dei prodotti già commercializzati e persino (si tenta almeno) dell’intera azienda casearia. Sequestro dunque, ma… non sempre: certe volte sì e certe altre no. E senza una comprensibile spiegazione per queste disparità di trattamento. Tra un po’ di tempo – alcuni anni diciamo! – le Autorità (giudiziarie e non) emetteranno sentenze chiarificatrici (almeno si spera) e spesso di assoluzione o comunque di assoluto ridimensionamento delle denunce e dei sequestri intrapresi con grande clamore mediatico: nel frattempo però il danno di immagine – e non solo – è stato già tutto quanto interamente consumato e paradossalmente ai danni di interi comparti agro-alimentari e non solo ai danni della singola azienda colpita. A questo punto allora ben venga in materia qualche pronuncia giudiziaria che si esprima nettamente – e soprattutto motivatamente – su queste problematiche, in modo da avviare finalmente un dibattito approfondito sul piano del diritto vigente in Italia e prima ancora nell’Unione Europea in materia. Solo così si potrà riportare equilibrio e coerenza in questo settore dei controlli ufficiali sui prodotti alimentari che non veda ingiustificatamente penalizzata anche la parte corretta e leale delle aziende alimentari.

Nota per il lettore

Non era questo l’articolo che alcuni mesi or sono, seconda metà del 2012, questi autori avevano immaginato di scrivere. L’articolo programmato era di un commento sull’attesa decisione del Tribunale del Riesame di Napoli sulla richiesta di sequestro per circa quaranta aziende casearie italiane, “ree” di aver richiamato in etichetta l’italianità della loro mozzarella per pizza, benché realizzata con l’impiego di cagliate di provenienza estera. Purtroppo né alla prima udienza – programmata per venerdì 17 agosto – né il 17 ottobre (un innocuo mercoledì) e neanche il 30 novembre 2012 è iniziato il giudizio del Riesame. In attesa del prossimo tentativo al 6 febbraio 2013 ci è sembrato però interessante per tutti aprire già ora una prima riflessione generale e un dibattito su di un tema, ormai di sempre più frequente attualità anche giudiziaria.

 

Carlo e Corinna Correra, avvocati ed esperti di legislazione degli alimenti