di Ivano De Noni
La filiera latte della montagna alpina comprende il 40% delle aziende e il 20% delle vacche del comparto lattiero nazionale. Una filiera che, negli ultimi 10-15 anni, ha visto ridurre di quasi il 50% il numero di aziende a fronte di un incremento del 28% della produzione di latte. Numeri che, molto superficialmente, indicano un processo di aumento delle dimensione medie e della produttiva degli allevamenti così come accaduto in pianura. Un’evoluzione naturale si potrebbe dire, ma forse non sufficiente a garantire la sopravvivenza della filiera, visto che il confronto con la pianura relativamente a costi per unità di prodotto e reddito per ora di lavoro evidenzia valori rispettivamente superiori del 25% e inferiori del 60%. Numeri che dimostrano come non sia possibile un’economia di scala in un territorio dove la produzione di latte è il più forte motivo di radicazione della zootecnia. Di più, il formaggio di montagna ancora oggi determina in larga parte la valorizzazione economica (e culturale) della filiera e, per questo, si è evoluto e diversificato per rispondere alle diverse condizioni socio-economiche. Questa evoluzione rappresenta il motivo del contendere tra due visioni antitetiche della tradizione e della tipicità casearia declinabili, secondo la visione più ortodossa (chiamiamola così), come un rischio di “standardizzazione” del formaggio. L’argomentare diventa particolarmente acceso quando coinvolge il ruolo dei microrganismi autoctoni di latte e formaggi che, dati alla mano, molto spesso sono tutt’altro che pro-caseari con grave compromissione della redditività (e in qualche caso della sicurezza) del prodotto finito. Da questo punto di vista, risulta fondamentale comprendere (casari per primi) come i presupposti essenziali per la definizione delle caratteristiche di specificità del formaggio di montagna siano determinati soprattutto da una corretta impostazione iniziale, in termini caseari, della biodiversità del latte di montagna. Questi presupposti, raggiungibili anche mediante l’utilizzo di starter autoctoni, hanno determinato innegabili effetti positivi sullo sviluppo e la redditività di filiera, sul mantenimento della tipicità del formaggio e, in ultima analisi, sulla sua riconoscibilità. Non me ne vogliano gli ortodossi di cui si diceva, ma condivido (secondo la mia interpretazione) l’affermazione di Steven Shapin per cui “La fiducia nella stabilità dell’identità del prodotto, ovunque esso venga consumato, è una delle condizioni del suo successo”. L’utilizzo di starter autoctoni si configura quindi come un’innovazione nella tradizione capace di incrementare o evidenziare le reali specificità del formaggio di montagna. Non comporta lo stravolgimento dei saperi e sapori locali a beneficio di un mercato standardizzato per necessità qualitative e di sicurezza. Al contrario, valorizza l’identità del territorio attraverso quella del proprio formaggio. L’innovazione nella tradizione è oggi indispensabile se per la filiera latte di montagna salvo immaginarla come una “riserva”, intesa come zona confinata, di formaggi per qualche turista della domenica o qualche esperto del buon gusto. Solo caseificando locale e pensando un po’ più globale, la filiera latte potrà contribuire a promuovere l’identità agroalimentare delle zone alpine; nel rispetto della tradizione potrà innovare il proprio formaggio guardando oltre, senza autoreferenzialità perché, parafrasando Kahlil Gibran, a volte “la montagna è più chiara dalla pianura” (Il Profeta).